Giornata mondiale sui Disturbi del Comportamento Alimentare

Cercare di parlare dei disturbi del comportamento alimentare oggi significa entrare in una rete complessa e variegata.
Variegata di diagnosi, classificazioni, interventi, strategie, punti di vista diversi e a volte in contraddizione.
Parlare dei disturbi alimentari significa parlare di persone con un profondo disagio con sé stesse e con gli altri, ma anche di famiglie, di mentalità e, scomodamente, anche di difese collettive rispetto al dolore mentale.
Nonostante la psicologia si sia espansa e le aree di ricerca e di pubblicazione siano fertili e vivaci, non si può tuttavia rilevare che quello che oggi sappiamo sul funzionamento psichico e sulla unità corpo-mente sia entrato a far parte del patrimonio collettivo e culturale.
I disturbi del comportamento alimentare continuano ad essere per la maggioranza, un problema col cibo, o un problema di appetito (nel migliore dei casi) o “un capriccio, una paturnia, una fissa” (nel peggiore), razionalizzando o svalutando e banalizzando difensivamente la punta dell’iceberg per evitare di andare in profondità.
Di andare oltre la facciata, oltre la superficie, oltre il dato concreto che arriva alla cornea.
E il sintomo alimentare risponde a questo, distrae dalla sofferenza interna anche chi ne è portatore.
Sposta la attenzione, come un acrobata che fa un numero molto rischioso e lo sguardo dello spettatore (e dell’acrobata) rimane impigliato nella acrobazia e non mette a fuoco chi la sta compiendo, che diventa sfondo, sollevando dal peso del dolore interno entrambi i protagonisti della scena.
Per l’acrobata tutto si ferma a che cosa mangia (o non mangia) e anche per lo spettatore molto spesso tutto si ferma alla stessa cosa. Come se tra i due ci fosse un oggetto ed entrambi gli sguardi si fermassero li, senza alzare ognuno il proprio sguardo per incontrare l’Altro e correre il rischio di sentire qualcosa, una emozione, un pensiero, una domanda che attraversa la mente: “come stai? Che cosa ti sta succedendo davvero?”.
Nell’era delle risposte, dei computer, dei risultati, dei numeri, delle classifiche, dei voti, dei followers, il punto interrogativo non è glamour.
Poi si pensa, poi si sente, allora sei umano, allora hai dei limiti, allora sei mediocre, allora sei un fallimento.
Ritengo sia inutile parlare direttamente dei disturbi alimentari se prima non si parla dell’ambiente in cui vengono alla luce e crescono.
Se il terreno soggettivo, familiare, scolastico, sportivo, sociale è permeato di giudizio (giusto-sbagliato, rigido e assoluto) ed è permeato di conflitto (qualcuno contro qualcun altro alla ricerca di chi ha ragione chi ha torto) allora cresceranno a dismisura, perché di questo si alimentano: giudizio, conflitto, competizione, controllo, confronto, invidia, narcisismo, potere, superiorità ed inferiorità.
Essere per forza il numero uno oppure nessuno.
E se sei il numero uno devi rimanerci in quella posizione, a qualsiasi costo.
E se sei nessuno devi uscire da quella posizione, a qualsiasi costo.
Non è una scelta e nemmeno una alternativa.
È un obbligo, ed è diventato normale.
Prendendo il posto della comprensione, della collaborazione, della intraprendenza, del rispetto, della responsabilità, della umiltà, della crescita comune e comunitaria.
Se le mele dell’albero sono troppo piccole o troppo grosse, o a volte troppo piccole altre troppo grosse, si dovrebbe essere in grado di non focalizzarsi solo sulla mela, talmente tanto da occupare tutto lo sguardo ma fare un passo indietro per poter vedere il ramo e poi un altro passo indietro per vedere l’albero e poi un altro in modo da vedere il terreno in cui è radicato e un altro ancora per vedere il paesaggio in cui è quel terreno.
E ad ogni passo farci e fare domande, per capire, per comprendere il senso, per trovare le parole con cui dare un nome alle cose.
Dove con parole non si intende solo il codice linguistico ma tutto ciò che trasmette significato, un tono, un gesto, un sorriso o un ghigno, una postura.
Parole con cui poter pensare, animare la mente, usarla, dar da mangiare all’intelligenza e dare voce alle emozioni e al corpo.
Ma questo è il tempo delle risposte assolute, certe, dei punti esclamativi, che hanno talmente riempito tutto e tutto omologato e omogeneizzato che intasano anche l’altro protagonista della relazione, chi ascolta.
L’ascolto presuppone l’assenza di giudizio e il fare spazio dentro di sé affinché le parole dell’Altro ci raggiungano e ci tocchino nel profondo, sollevando emozioni e pensieri che diventano poi scambio e nutrimento reciproco.
Così forse, alla fin fine ci si potrebbe chiedere se i sintomi dei disturbi del comportamento alimentare siano solo il primo strato di altri problemi, di altri dolori schiacciati giù in fondo, di altre angosce mute: che riguardano non solo quello che entra nella bocca, ma anche e soprattutto quello che esce dalla bocca, che entra nelle orecchie e negli occhi e quello che esce, dalla voce, dalla pancia e dallo sguardo.
Il dolore ha bisogno di spazio, di essere drenato, masticato, elaborato, smatassato.
Come il senso di colpa.
Come la vergogna.
Ma il dolore è dei deboli: questa è la propaganda dell’ambiente contemporaneo.
Quindi controllalo.
Chiudendo il corso del fiume con una saracinesca, nella illusione che l’acqua si fermi, mentre prenderà soltanto un’altra via, magari la via di un sintomo.
Nella cultura italiana il fallimento non è contemplato, perdere una partita, cadere, inciampare, sbagliare, fare un errore (nella cultura americana se hai dei fallimenti nel curriculum sei considerato qualcuno con esperienza).
Sennò quel piccolo neo si dilata a dismisura e ti divora.
E se non lo fai tu lo farà qualcun altro.
E lo sai.
Perché è già successo.
È già nella tua memoria.
È già dentro di te.
Già ti giudica se mangi un biscotto in più oppure ottieni un risultato in meno di ieri.

Solo che il dolore non è dei deboli.
Il dolore è dei vivi.

 

Dott.ssa Paola Sacchetti Rossi
Psicologa Psicoterapeuta
Psicoanalista SPI

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